Roberto My [Intervista]

PressOffice

La passione per la musica ti fa fare di tutto e ti rende capace di qualsiasi cosa. Anche di fare un disco d’esordio solista a più di dieci anni di distanza dall’ultimo disco della tua band. È quello che succede a Roberto My, che con l’album “Flares”, incomincia un nuovo percorso, sulle tracce di quello che un tempo era definito indie-rock: chitarra, basso, batteria e soprattutto elettricità.
Noi abbiamo voluto sondare più affondo su “Flares” e Roberto My ed ecco che cosa ne è venuto fuori!

AS: Quando ed in che modo hai iniziato il tuo percorso nel mondo underground ? 
RM: Ho iniziato a suonare in una band all’inizio dei Novanta. Avevo 17 anni e il nome del gruppo era No more colours. Eravamo un gruppo di amici, super fan dei Cure e dei Joy Division, ma ci piacevano anche i big del passato (Hendrix, Bowie e i Pink Floyd). Suonavamo diverse cover dei gruppi citati, ma ci è piaciuto da subito misurarci con delle canzoni nostre. Provavamo quasi ogni giorno e credo che, vivendo in un paese del sud (in provincia di Lecce) dove c’era assai poco da fare, senza la musica ci saremmo annoiati parecchio.

AS: Da quali generi e bands sei influenzato ? 
RM: Oltre al post punk che ho ascoltato tanto da giovanissimo (Cure, Joy Division, Siouxie & the Banshees) e alla psichedelia, genere che ho sempre apprezzato (Pink Floyd, Robert Wyatt), sicuramente l’indie rock (Dinosaur Jr, Pavement, Sonic Youth, Pixies etc.) e il grunge (Afghan Whigs e Mudhoney su tutti). E poi Neil Young, Motorpsycho e Karate.

AS: So che potrebbe non essere facile farlo, ma potreste commentare il tuo ultimo lavoro?
RM: Credo che “Flares” sia un disco che è percorso da un tema conduttore che è il potere salvifico della musica. Arriva a più di dieci anni di distanza dall’ultimo dei Volcano Heart la band dei miei anni universitari bolognesi (che potete ascoltare qui https://volcanoheart.bandcamp.com/releases )
Musicalmente credo sia una summa di tutto ciò che mi piace, spero mixato in qualcosa che però suoni abbastanza originale alle orecchie dell’ascoltatore.

AS: Com’è cambiata la scena musicale dai tempi dei Volcano Heart ad oggi ? 
RM: Beh, è cambiata parecchio. Ho fondato la band a Bologna a metà degli anni Novanta. Eravamo parte di una cultura underground. Noi disprezzavamo la cultura di massa e la televisione che la diffondeva. Ora l’aspirazione di molte band è quella di partecipare a un talent show in tv. Poi io ho vissuto un’era analogica. I nostri primi demo erano registrati su cassetta. L’ultimo disco dei Volcano Heart , “Afternoon Pleasures” è del 2005. Internet già esisteva, ma non aveva ancora quella diffusione raggiunta in questo decennio. Non dico, si badi bene, che era meglio o peggio. Solo era profondamente diverso.

AS: Come giudicate il veicolo Internet per la promozione della scena musicale? 
RM: Senza dubbio aiuta. C’è però il rischio di smarrirsi per la troppa offerta di musica. E pure quello di non dare (da fruitori) o avere (per quanto riguarda i musicisti) la giusta attenzione durante l’ascolto. Proprio a causa dell’amplissima offerta.

AS: La tua passata esperienza con i Volcano Heart cosa ti ha lasciato di bello e cosa da dimenticare ?
RM: Di bello sicuramente il piacere di fare musica insieme ad altri. E’ un’emozione particolare quella di far parte di un progetto artistico comune ed una band è uno spazio speciale in cui questo si può realizzare. Anche quando un brano nasce in solitudine è solo nella condivisione con altri musicisti che raggiunge il suo compimento. Da dimenticare, quindi, direi nulla.

AS: In definitiva che cosa vuoi fare da grande? 
RM: Suonare, suonare e suonare! Per le ragioni di cui ho appena parlato.

AS: Siamo in dirittura di arrivo: Hai carta bianca lascia un messaggio ai nostri lettori! 
RM: Ascoltateci e date un’occhiata su YouTube al video di “Motherland”, la canzone che apre l’album e il cui video ho realizzato quest’estate. Lo trovate qui:

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